A proposito di barriere coralline nel Mediterraneo...

 

di Cosma Cafueri

 

 

“La Puglia come le Maldive”: così titolavano molti giornali dopo la recente scoperta di una possibile barriera corallina al largo della costa monopolitana. La cosiddetta scoperta ha avuto una grande eco mediatica. Si tratterebbe di un ritrovamento unico, eccezionale, per i nostri mari, ma è davvero così?

In realtà i titoli dei giornali, come spesso accade, sono stati enfatizzati oltre il lecito. Le barriere coralline vere e proprie (che differiscono molto anche tra di esse in base alla latitudine) sono molto diverse da quanto è stato individuato al largo di Monopoli, e soprattutto arrivano fin sotto la superficie, costituendo, appunto, delle ‘barriere’ e separando ecosistemi differenti. Banchi madreporici a 30, 40 o 50 metri, come in questo caso, non sono ‘barriera' in quel senso. Al più ne potrebbero essere un inizio, o potrebbero diventarlo, in condizioni straordinarie, forse tra...cinquantamila anni!

Stando ai ricercatori dell’Università di Bari, che hanno annunciato il ritrovamento, si tratta di banchi coralligeni molto simili per fattura e colore ad alcuni di quelli equatoriali, che però crescono in acque più superficiali, quindi più illuminati. Ma da quanto se ne sa con esattezza, in realtà le cose sono alquanto diverse dai titoli miracolistici della stampa, e le foto apparse sui media di barriere coralline maldiviane o del mar Rosso sono del tutto fuorvianti. Il team dell’Università di Bari che se ne sta occupando, dopo l'annuncio della scoperta è stato piuttosto reticente su molti dettagli, e questo legittimamente, perché prima di dar risposte definitive sul fatto e le sue cause più precise bisogna lavorarci ancora, bisogna fare molti altri rilievi e analisi, che non si possono fare come in un sea watching a pelo d’acqua, e nemmeno solo con un veicolo subacqueo filoguidato ma andando personalmente fino a quelle profondità con tutti i problemi e i rischi del caso, e per quanto oggi sia possibile scendere a quelle quote con metodi che permettono una certa sicurezza in più e una permanenza maggiore, non è esattamente una passeggiata. Più che banchi 'coralligeni' si dovrebbe dire allora 'corallini', intendendo con questo che non si tratta di alcun tipo di 'corallo' comunemente inteso.

Esempio di coralligeno pugliese.

Si tratta di madrepore (che nel Mediterraneo abbondano), cioè colonie di piccoli celenterati parenti, per così dire, di quelli che costruiscono le barriere coralline. Questi ultimi sono in simbiosi con delle alghe, le zooxantelle, che permettono loro di nutrirsi senza intercettare molto cibo in sospensione nell'acqua.

Celenterati mediterranei.

L'acqua marina tropicale è 'cristallina' proprio perché è povera di nutrienti in sospensione. Ma siccome le zooxantelle sono alghe, devono fare la fotosintesi e hanno bisogno di stare vicine alla luce, in quella che nel mare è chiamata zona 'eufotica', di buona illuminazione, dove la luce arriva in tutto il suo spettro. Praticamente tra la superficie e i primi 20 metri a seconda della limpidezza dell'acqua. E' per questo che le barriere coralline vere e proprie si innalzano fino alla superficie dell'acqua e chiunque le può ammirare senza grandi sforzi. I banchi madreporico/corallini di Monopoli invece vivono in una zona povera di luce, detta mesofotica, e i celenterati che li caratterizzano non sono in simbiosi con le zooxantelle, che a quella profondità non potrebbero fare la fotosintesi. E' questo che ne farebbe una delle ‘novità’ sul piano biologico. Infatti queste madrepore 'pescano' attivamente i nutrienti direttamente dall'acqua, che in Adriatico sono abbondanti per via dei fiumi (il Po su tutti) che vi si riversano (ragion per cui l'Adriatico ha una limpidezza minore, per esempio, rispetto allo Jonio). L’habitat corallino scoperto sembra non essere circoscritto al solo tratto monopolitano e forse si estende anche oltre. Una delle ipotesi che viene fatta, con una base plausibile, è che queste formazioni esistano anche a sud di Monopoli fino al Salento. Del resto, qualcosa di affine comunque era già stato segnalato informalmente in passato da vari sub, senza tanto chiasso, dalle parti di Brindisi e altrove. Le concrezioni coralligene in questione si trovano comunque in un tratto di costa con una spiccata identità biologica, già meta del turismo subacqueo, ma non risulta siano state divulgate le coordinate di dove si trovino queste formazioni, né è pensabile ovviamente che chi ha fatto la scoperta tenga a rivelarle. La ‘comunità’ dei subacquei, sportivi o professionali (di cui chi scrive si onora di far parte), è fatta in gran maggioranza di ‘gente che ama il mare, lo rispetta e lo fa rispettare, ma come tutti i gruppi annovera una piccola minoranza che scenderebbe sul posto per prendersi un ‘souvenir’ a martellate e poi esibirlo in casa come soprammobile senza capire il danno provocato. Quindi meglio limitarsi a dire che sono ‘al largo di Monopoli’, almeno fino a quando la zona non verrà adeguatamente protetta.

  Alghe coralline (Monopoli).

Molti si sono chiesti anche in cosa si differenzia da queste madrepore il cosiddetto “coralligeno pugliese” diffusamente presente nei nostri mari. Rispondere a questa domanda permette ulteriormente di fare chiarezza sul concetto più importante per capire di cosa parliamo: il ‘coralligeno pugliese’ è un coralligeno mediterraneo, naturalmente. Il termine ‘coralligeno’ definisce la gran parte della roccia organogena del nostro mare, cioè roccia prodotta dal calcio fissato e accumulato da epoche remote da organismi viventi, che nel Mediterraneo sono soprattutto alghe rosse o brune (le coralline, appunto), cioè vegetali, con uno scheletro calcareo. Il processo di formazione del banco di roccia è analogo a quello delle barriere tropicali: il nuovo organismo nasce cresce e muore sull' 'impalcatura' calcarea lasciata dalla generazione precedente, accumulando la propria struttura alle precedenti. Solo che da noi sono protagonisti dei vegetali, ai tropici degli animali. L'altra novità del banco corallino scoperto, quindi, starebbe proprio nel fatto che quei banchi di roccia sono fatti di cumuli madreporici, cioè di origine animale così come avviene nelle barriere coralline tropicali. E questo si potrebbe sicuramente definire un fenomeno relativamente nuovo nel Mediterraneo.

Venendo a problemi più immediati, questa scoperta può senz'altro accelerare la realizzazione del “vecchio” progetto di un’oasi blu in quel tratto di mare, nonostante la presenza nelle immediate vicinanze di un depuratore obsoleto. E' però un po’ triste pensare che ci sia voluta la ‘scoperta’ e il relativo clamore per tornare a parlare di aree marine protette lungo il litorale della provincia. Molte associazioni ambientaliste, nonché di subacquei, da molti anni chiedono che si discuta l’opportunità di istituire almeno un parco marino che protegga e valorizzi tratti di costa e di fondale notevoli. Tra Polignano e Monopoli le aree marine di pregio sono molte, con presenze di flora e fauna anche uniche, e se interessi di bottega non lo avessero impedito fino ad oggi, avremmo da tempo una delle aree marine protette più belle e attraenti d’Italia. Non c’è quindi solo da proteggere l’area in questione, ma insieme ad essa almeno una decina di chilometri di costa tra Polignano e Monopoli (anche con soluzioni di continuità). La provincia di Bari non ha ancora un parco marino. Quindi ben venga tutta questa ‘voglia’ di istituirlo grazie alla suggestione e all’entusiasmo suscitati dalla cosiddetta ‘barriera corallina’. Circa il vecchio depuratore rotto, così come stanno le cose, non si pensa possa avere un immediato impatto negativo sui 'coralli' scoperti. Il fatto però è che nel mare non ci sono solo questi banchi di madrepore, ma, come si è detto, tante altre biocenosi, aggregazioni interdipendenti di esseri viventi che non hanno minore importanza, anche ai fini della stessa pesca. Quindi qualsiasi cosa alteri i delicati equilibri del mare, non può che danneggiarlo e non è un modo di dire che se non la finiamo di inquinare, quello che scarichiamo in Adriatico già ce lo ritroviamo nel piatto.

C'è da fare infine un'altra importante riflessione, seppure a grandi linee, ovvero sull’impatto socio-economico di un’area marina protetta sul territorio afferente. Tutti i territori che si affacciano su un’area marina protetta (come ovviamente tutti quelli che si trovano dentro o vicino ad una riserva naturale di altro tipo) incrementano la propria ricchezza di un minimo del 10%. In alcuni casi si va oltre il 50%. Un’area protetta vuol dire un’area sana, e, per semplice associazione, tutto quello che è intorno o a ridosso beneficia del ‘valore aggiunto’ in termini di qualità percepita. Senza andare lontano da noi, bisognerebbe leggersi i numeri della riserva di Torre Guaceto, che da quando è stata istituita ha determinato una più che positiva ricaduta economica sul territorio circostante. Il primo parco marino italiano è stato quello di Miramare, a Trieste. Sono meno di due chilometri (appena) di costa che coincidono in parte con il lungomare della città (già, proprio così). Quando fu istituito era fatto di fondale povero e devastato. Adesso, in estate, vi si può passeggiare e se ci si vuole fermare per fare un tuffo con maschera e pinne, si possono vedere cernie a un metro e mezzo di profondità… Trieste di suo è già una città bellissima, ma l’esistenza del parco marino è stato un ulteriore volano per il turismo e tanti altri servizi, oltre che per la qualità di vita di quella straordinaria città. Ce n'è di che riflettere non solo per chi vive a ridosso del mare, ma anche e forse soprattutto per chi si trova nei pressi di una grande area protetta, che si tratti della costa o dell'interno.

Articolo pubblicato anche sulla rivista "Partecipare" del 30 maggio 2019.